Un’antologica, quarantasette opere prese, in un pomeriggio di marzo, quasi tirando un filo diritto attraverso un lavoro fatto invece a circuiti, gomitoli, passi in dietro, salti induttivi, durante vent’anni di pittura, scultura, guazzi, oggetti e perenne testardaggine infantile…
Floriano De Santi mi ha lanciato un gioco difficile e io l’ho colto al volo perché a me piace giocare.
Dov’è il difficile e dov’è il gioco?
Un’Antologica vuole un chiaro segmento di storia: ti chiede da dove sei partita e vuol vedere dove sei arrivata: è tutto normale. Ma io sono come un moscerino in un cesto di frutta, il moscerino non sa cos’è esso stesso, non sa cos’è l’altro, quel prodigio di odori, né sa perché sente tanta attrazione , ma sa che reciprocamente si appartengono, e per la natura di queste appartenenze sente di dover girare e girare attorno ai frutti, quasi a cogliere pezzetti di vero. Ha bisogno di capire com’è il mondo che contiene entrambi,che ne vede e regge l’armonia, la legge strutturante. La batesoniana struttura che connette; non va mai in linea retta, cuce, esplora, allaccia piani diversi.
Il piccolo dittero non ha eletto niente di sé ad unico occhio conoscitore, capace di farsi esterno a tutto, rimane dentro a quel legame che lo unisce alla frutta, resta nei circuiti di quel tutto per guardare, sentire, cogliere scorci di vero per intuire il grande ventre e trovare in quello anche la propria verità. E’ per il fatto che sono una drosofila e non un soggetto cartesiano che quando il professor De Santi è venuto nel mio studio a scegliere le opere sono diventata di colpo una ragazzina che, sul campetto da gioco, si sente dire: fammi vedere cosa hai nella tasca del grembiule, voglio parlare di te”.
In tasca c’è sempre quello che resta delle cose che ci sono passate per le mani, a caso, e che però non abbiamo più. Non è facile farsi dire dalle briciole di merenda, da un pezzo di chissà quale gomitolo di spago, dal frammento di plastica di un gioco rotto; mi sono chiesta come mettere in fila secondo un aspettativa progressiva, che da A vada a B, il mio girovagare in circuiti associativi logici e analogici, coscienti e meno, i miei fili d’Arianna lungo i labirinti da esplorare e non da lasciare, la mia domanda, non delle cose che vedo e che sento, ma delle strutture che stanno sotto quello che vedo e che sento, che vediamo e sentiamo, le strutture che non sono soltanto mie, ma dell’intero mono relazionale.
La vita ci fa in tanti modi.
L’arte, mentre frugavo nella filosofia dei numeri, pezzi che contano i pezzi, e degli infiniti matematici, che fluiscono come respiri, e mentre risentivo nelle vampate affettive il ricordo del battito del cuore di mia madre e sentivo quelli e questi allacciarsi insieme, l’arte aveva già una grande storia che io, mezza ignorante e mezza straniera, immigrata e piccola, non conoscevo.
La drosofile non si chiede d’arte, ma solo di quella tensione che le pulsa dentro e diventa arco verso l’altro, verso l’odore di energia, verso la materia dolce, la marcescenza piena di vita e si chiede cosa siano quei ritmi, quei rapporti lontano-vicino, quei colori che vede e quei diversi colori che sente, le risposte che tornano col punto interrogativo.
La filosofia estetica si ritrova una vita più intricata della vita toccata in sorte alla filosofia matematica o alla filosofia della scienza, scrivere le regole dell’arte, analizzare le categorie entro cui proteggerla dalle sbavature, non è semplice anche per l’aspetto antinomico che un tale problema contiene, eppure è stato tutto scritto attraverso un viaggio a lunghe tappe. Dalla Grecia classica, che celebra la bellezza nell’ordine del suo Cosmo e ama la poesia, passa per l’Ellenismo, che sposta il centro di quell’ordine dal Cosmo dei presocratici all’uomo aristotelico detentore del Logos, del pensiero razionale cosciente; più tardi, al tempo del Regnum Dei passa attraverso l’ineffabilità del bello come ineffabilità di Dio, e la bellezza è una forza desiderativa dell’anima che implica sempre e solo un processo ascensionale verso il divino; passa poi attraverso l’immaginazione ideale delregnum hominis.
L’arte fa il proprio cammino dentro una precisa visione del mondo sempre più antropocentrica, solo nel Rinascimento tocca un Cosmo che, in parte, supera l’uomo, in quanto alchemicamente è il Cosmo a rapportarsi con l’uomo stesso, ma non viene mai abbandonato l’ideale di un mondo che ruoti attorno all’uomo, o meglio, ruoti attorno a quella parte che l’uomo sente, di sé, più elevata, quasi divina e nella quale si identifica: l’intelletto, la coscienza razionale.
La dicotomia con cui gli Aristotelici l’hanno diviso in due, vittima salomonica priva di una madre salvatrice, diventa sempre più potente: l’uomo-ragione contro l’uomo-emozione, il primo viene scelto a luce garante mentre il secondo viene respinto come dis-ordine… L’emarginato a volte si ribella, lo fa ad esempio nel vitalismo interiore del Manierismo, come nelle “sregolatezze” del Barocco, ma la corrente razionalista di Cartesio e quella empirista di Locke si impongono come il terreno di cultura di quel vasto movimento di pensiero che tende poi a risolvere tutti i problemi dell’uomo ai “soli lumi” della ragione.
Nascono il metodo scientifico galileiano e la scienza sperimentale, la conoscenza impone l’osservazione oggettiva di parti estrapolate e misurabili quantitativamente e questo vedere, controllare, contare, tranquillizza e ad esso si rivolge sempre più la domanda di sicurezza. Anche l’Arte si vede sempre più classificata, ordinata, precisata nei termini e comincia a vedere il mondo non insieme con la scienza, ma attraverso i filtri della scienza.
Winkelmann interviene nell’oggetto “arte”, già in qualche modo connotato e corredato di un propria disciplina, e finisce per “devitalizzarlo” fissandone in modo lapidario la forma; e questa frantumazione definitoria è un canone che continua ad operare,mutatis mutandis, in tutte le etichettature che ancora burocratizzano le categorie estetiche del 900 e le attuali. Ma per tornare alla natura complessa della mappa del reale e alla gestione dicotomica che se ne fa, ricordo che l’Illuminismo si è formato ed è vissuto tra le due grandi rivoluzioni, quella inglese del 1688 e quella francese del 1789, quando il tema della libertà era parte integrante dello spirito dei tempi.
Il desiderio di maggior libertà, apparentemente in modo paradossale, porta sempre con sé la richiesta di maggior sicurezza. Il bisogno di più chiari parametri di riferimento si accompagna ad un allargamento dei confini, quasi come un antico bisogno di argine nei confronti di un’incontrollabile ansia agorofobica: un paradosso fortemente attuale che partorisce fobie e da cui occorrerebbe schizzare fuori al più presto.
L’uomo settecentesco ha voluto liberarsi di tutti gli impacci metafisici sacrificando ogni istanza alla propria divinizzata ragione; ma poi ne avverte il peso, e denuncia l’aridità di quell’assolutezza oltre la mancanza di risposte. Sente il bisogno di rivalutarsi nella propria interezza, ma in questo sforzo di recupero, per il modello dicotomico di fondo, l’accento si sposta radicalmente sul lato dell’irrazionale, sul lato delle passioni irrompenti, delle tensioni spontanee. La dicotomia è l’assioma problematico del sistema culturale dominante, un archetipo problematico che nega le categorie mentali necessarie a sentire, agire ed esprimere l’intero, l’organico goethiano; l’assioma impone continue procedure di aut/aut, il salto sistematico da un estremo all’altro ignora tutte le relazioni e le leggi che le connota.
A fine Ottocento si gonfia e monta una sorta di maremoto, un cambiamento epocale con grandi masse in movimento e grandi risultati scientifici: in un solo vortice si scontrano le morenti istanze romantiche e l’hubrys tecnologica.
L’arte accademica cerca di porsi come un’àncora, ma si rivela una difesa troppo fragile date l’artificiosità e la devitalizzazione che la penalizzano, e la Forma si frantuma e disgrega i propri contorni in punti luminosi, in tensioni analitiche e sintetiche, in strutture geometriche, in strutture pseudo organiche; la forma si riduce anche ad essere solo pensata. Vuole astrarsi e chiama astrazione il passaggio dal corporeo al non-corporeo.
Grande rivoluzione, una falsa rivoluzione, infatti si rompe un canone imbalsamato senza però che questo cambiamento muti lo schema di fondo:, la dicotomia mente /corpo, non offre altre vie, ogni scelta è una sorta di falsa-scelta chiusa com’è nell’alternativa Bene/Male. Alla provocazione geniale di Duchamp, infatti, non fa seguito il cambio di schema che avrebbe potuto salvarci dal modello binario. Marcel Duchamp ha urlato, inconsciamente, un cambio di struttura col suo cambio di contesto e questa nuova angolatura avrebbe potuto far uscire il sitema-arte dall’aut-aut, si resta invece chiusi nel paradosso stesso: se quello che si pensava “bene” si è rotto resta necessariamente quello che può essere chiamato “male”, dal pieno al vuoto, amiamo il vuoto e il nulla teorizzato: quindi si aprono mille strade al nichilismo autoreferente.
Emerge un fenomeno sotterraneo: già l’Estetica, battezzata da Baumgarten e teorizzata filosoficamente da Kant, con Hegel era entrata in un processo di dissoluzione: infatti la stessa esperienza estetica per il filosofo tedesco, non è che un momento della dialettica dello Spirito Assoluto e come tale destinato ad essere superato storicamente. Nietzsche piange il proprio dolore di orfano perché Dioniso non è tornato a lottare con Apollo. La crisi del concetto di arte è la crisi stessa dei concetti che entrano nelle sue note: il concetto di bellezza, il concetto di rapporto tra arte e natura, quello di forma; da un lato, le forme si ampliano eccessivamente nel tentativo di raccogliere tutto l’imprevisto che il nascente Novecento genera e dall’altro si restringono in mille diverse angolature definitorie; i Manifesti delle Avanguardie e le estetiche scientifiche fondano statuti e delimitano aspetti.
Nella recente Storia di sei idee W. Tatarkiewicz parla degli artisti ribelli di inizio Novecento e vede l’evoluzione dell’Avanguardia percorrere tre fasi diverse: la fase maledetta, la fase militante e quella vittoriosa. L’Avanguardia vittoriosa è quella dove gli artisti hanno smesso di combattere, dove hanno smesso di proporre e diventano… “ricercati, particolarmente apprezzati, famosi, ben retribuiti. Gli artisti conservatori sono respinti in posizioni difensive e si salvano imitando l’Avanguardia […].Di fatto non vi è più avanguardia, in quanto vi è solo ‘avanguardia’”
Il mondo perde palesemente la propria oggettività diventando mercato e la forma dell’arte perde i propri contorni di senso, perde quei contesti che ne avevano coagulato organicamente i pur tanti significati. Quest’esplosione dei contorni della forma origina tante direzioni di ricerca quanti sono i frammenti schizzati, ma queste ricerche, ‘lineari’, prima o poi si esauriscono per mancanza di motivazione originaria e allora gli artisti conservatori, orfani di se stessi, cercano di prendere “ ispirazione” da qualche altro particolare pescato nel mercato delle frammentazioni, e ricominciano a percorrere un nuovo segmento. La nostra cultura ha perso il senso dell’organico, com’era logico che fosse stante la struttura sostanzialmente dicotomica, e quindi non riesce a cogliere il senso della complessità: i suoi processi di linearizzione sono figli delle procedure lineari-deduttive della coscienza che, riflettente su se stessa, si suppone un occhio oggettivo, osservatore, dal ‘fuori’, dell’intero esistente.
Il mio essere un semplice moscerino mi racconta una storia diversa da questa gestione del mondo orfana di ogni appartenenza, una storia di differenze e relazioni interattive, una storia dai circuiti dove ci si avvicina alle cose non separandole in pezzi, ma partecipando al loro fluire. Un occhio chiaro, non paranoide, felice e curioso cerca convalide procedendo nell’interazione di congruenze logiche, causa-effetto, congruenze analogiche, abduttive che vedono le grandi categorie e le appartenenze, che percepisce la struttura connettivante dell’insieme.
La guida maestra per il dittero non è patrimomio dell’una né dell’altra procedura, ma di una gestione delle entrambe da una posizione più elevata, una posizione di meta livelli, una più complessa capacità di entrare in relazione.
L’arte? Ebbene credo che l’arte sia l’espressione della massima interezza di cui una persona possa fare esperienza sia sotto l’aspetto della prassi che del godimento; come tale è indispensabile alla vita, un comportamento fondante, una polimorfa ricerca di senso. Per me drosofila, l’arte è un cammino che non ha la traccia rettilinea della logica razionale; non è un comportamento stretto nei lacci di alternative binarie, l’arte è il segno di un rovello necessitato che spinge la domanda fin dentro le ombre del sistema dei sistemi, la vita; una sorta di ‘sapienza’che manca sempre l’oggetto nutrendosi di tutti i saperi senza ridursi a nessuno di essi.
La scienza fornisce alcune leggi del mondo, ‘vere’ salvo confutazione, la filosofia cerca indagini coerenti attorno ai nostri ‘perché’ sull’esistenza, l’arte, nel suo oggetto fuggevole, dovrebbe farci sentire i fili che ci legano al mistero del mondo, dovrebbe dirci il mistero di questo nostro appartenere alla vita.
L’astrazione, in Estetica, è sempre il dittero che parla, non è un semplice processo di matematizzazione del vivente, fatto di contesti e sotto-contesti in relazione reciproca: ogni elemento spiega il proprio contesto e ogni contesto conferisce significato all’elemento che contiene. Sono rapporti logici che la Teoria Generale dei Sistemi studia dalla seconda metà dello scorso secolo con metodo scientifico, aspetti delle relazioni che però la vita anima di infinite varianti che solo l’arte può cogliere. C’è un bisogno forte di ritrovare i sensi di appartenenza perché più si estrapolano parti da parti più ogni frammento viene chiuso in separati cassetti definitori; più si rischia di spezzare in modo irreparabile i circuiti lungo i quali scorrono i rapporti relazionali, le soluzioni dei problemi, e lungo i quali fluisce la nostra stessa esistenza, il variare, per ognuno, dei propri infiniti momenti.
Le forme che continuo a comporre sono tese alla domanda di tutto questo perché credo che la vita di cui anch’io sono fatta sia un grande organismo vivente dove tutto è linguaggio, comportamento, messaggio, tutto è dialogo e apprendimento…Allora dov’è il difficile? Il difficile è nel rispondere con le cose che mi trovo in tasca, su due piedi; e il gioco? Il gioco è nella sfida di vedere quanto queste poche cose che mi trovo in tasca velino o svelino il mio DNA di drosofila.
“…l’idea del sistema, cioè di armonia, di convenienza, di corrispondenza, di relazioni di rapporti, è idea reale ed ha il suo fondamento, il suo soggetto nella sostanza, e in ciò ch’esiste […]. Chi sbandisce affatto l’idea del sistema, si oppone all’evidenza del modo di esistere delle cose. Chi dispera di trovare il sistema e i sistemi vari della natura, e però si contenta di considerare le cose staccatamente […] ha posto per base la disperazione di conoscere la somma della natura […]. Non si conoscono mai perfettamente le ragioni, né tutte le ragioni di nessuna verità, anzi nessuna verità si conosce mai perfettamente, se non si conoscono perfettamente tutti i rapporti che ha essa verità colle altre” ( Giacomo Leopardi “Zibaldone”, 1889-1892)
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