Maria Micozzi

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‘Tra bellezza e sublimità’ di Franco De Faveri

La rivoluzione astratta che, nel primo decennio del nostro secolo, ha ricacciato la figuratività lontano lontano nell’Ottocento (dando così a entrambi i secoli un’identità artistica precisa), è incomprensibile per chi dimentichi il “peso specifico” della figuratività stessa. E’ da essa, infatti, che l’astratto si definisce, a partire da Worringer che di esso dà la formula quintessenziale. Qui però vanno fatte delle precisazioni capitali. “Astratto” è infatti, per Worringer, non tanto il semplicemente non-figurativo, quanto il figurativo opportunamente stilizzato, sterilizzato in certo modo della sua vitalità e organicità e quindi geometrizzato. “Astratta” sarà così per Worringer l’arte egizia antica, l’assira, l’arte greca arcaica etc.

                La formula worringeriana ebbe un’enorme fortuna e influì certo su Kandinsky e di là in Europa e nel mondo. Essa venne ripresa, in ambito anglosassone, da Herbert Read, che si faceva però paladino del momento organico (riconosciuto in Moore) e da Greenberg (paladino invece dell’astratto) che la rendeva paradigmatica in America. In ambiente spagnolo troviamo Ortega y Gasset. In Italia non è possibile non richiamare Carlo Belli (oggi caduto un po’ nel dimenticatoio) che dava dell’astratto la radicalizzazione massima: l’astratto è per lui non solo l’afigurativo, ma l’antifigurativo o addirittura l’antiumano. L’arte astratta (tale è quella di Bach, opposto al “sentimentale” Beethoven) toglie alla rappresentazione tutte le connotazioni umanizzanti: la rappresentazione viene così eguagliata ad un numero, ad una formula matematica, come quel Kn (da leggere: “kappa con enne”) che dà il titolo al libro che divenne il manifesto dll’astrattismo in Italia.

 

                I poli sono dunque, riassumendo: da un lato l’arte “organica”, ricca di connotazioni umanizzanti, in cui si ha rappresentazione di oggetti, una rappresentazione che quindi “esce” dalla cornice per indicare, significare, delle entità esterne al quadro e riconoscibili e connotate come tali. Sul polo opposto, quello dell’astrazione, abbiamo la negazione di ogni riconoscibilità e connotazione. Significa questo anche la negazione di ogni rappresentazione? Non esattamente: l’arte figurativa, organica, cerca sempre nell’oggetto rappresentato, l’archetipo nascosto, in cui sta la misura della bellezza. La rappresentazione, nella figuratività è quindi duplice: vi si rappresenta l’oggetto concreto, ma insieme anche, “dietro” di questo il modello archetipico trascendente e, in definitiva, il divino, sede di ogni bellezza.  

                L’arte non figurativa, astratta, evita la rappresentazione dell’oggetto concreto; ma non per questo rinuncia al rapporto col trascendente (così già in Worringer, poi in Kandinsky, Mondriaan e poi in Carlo Belli), con quanto “sta dietro” ad ogni oggetto: questo salto che conduce, al di là e al di sopra del finito, direttamente all’infinito, non si richiama più al bello, ma al sublime.

 

                Veniamo ora a noi, cioè all’opera di Maria Micozzi. Essa si situa, mi pare, in qualche modo trasversalmente tra il mondo della bellezza e quello della sublimità. Fin dai suoi primi lavori stilisticamente (fortemente) caratterizzati (del periodo che vorrei dire neosurreale), quello che appare chiaro, nel quadro, è in qualche senso lo “ingombro” di esso; la superficie del quadro è così colma di oggetti rappresentati che la rappresentazione, in certo modo, e in modo immanente, si converte nel contrario di se stessa: è una rappresentazione che, nella marea del concreto, fa naufragare il concreto stesso e con esso la sua rappresentazione. Il quadro, qui, piuttosto che ostendere oggetti, “rappresenta” in realtà la rappresentazione dell’irrapresentabile. Ci troviamo con Maria Miccozzi, quindi, in una strano bilico tra figuratività e astrazione, tra bellezza e sublimità: le forme oggettuali non sono mero pretesto (sono troppo “piene” per esserlo); ma non sono propriamente esse il vero protagonista del quadro. A contemplarle viene un po’ i mente il mito greco, in cui la divinità sempre disponibile a metamorfosi infinite, si incarna un po’ in ogni forma, non saziandosi di nessuna, essendo di casa in tutte. Il vero protagonista delle opere di Maria Micozzi è, con questo, la metamorfosi infinita, il salto di forma in forma, di quanto, quindi, è trascendente ad ogni rappresentazione.

 

                Di questa corsa, anche affannosa, per rappresentare l’irrapresentabile mi pare che l’artista nel nuovo periodo della sua arte (in cui si trova tuttora) abbia inventato un “volto” più adeguato, che sta (si perdoni il gioco di parole) nella negazione del volto delle figure. La figura umana è, profondamente, anzi tutto una fisionomia: il corpo sta in piedi, in definitiva, per “supportare” una testa, la quale a sua volta è la cornice in cui si “inquadra” il volto in cui avviene l’essenziale dell’umano: l’espressione, specchio dell’anima. Da qui si spiegano i vari modi cui assistiamo nella contemporaneità dell’anti-antropomorfismo: questo è intento sempre a sfigurare il volto, a martorizzarlo, cancellarlo, cassarlo (Bacon è solo un esempio), sempre conservandone l’effigie o almeno l’impronta.

                Maria Micozzi opera qui diversamente e in modo affatto radicale: le sue figure di donna, che fanno giganteggiare su uno sfondo carracciano i propri denudati attributi femminei, ventre e seni, non hanno volto, anzi, non hanno il capo. Al posto del capo sta un buco vuoto, neanche palliato da qualche segno di sangue che indichi l’abrasione (col che si cadrebbe in un realismo doppiamente macabro). Il capo, più che mancare, non c’è mai stato. Dal buco vuoto appare, magari, qualche elegante, e inquietante, animale, perfettamente disegnato e dai ricchi, brillanti, colori. D’altra parte, la ferita, assente, è segnata, eventualmente, da una collana dalle trasparenze perlacee. A meno che non intervenga il rosso d’un filo che parte da un qualche rocchetto e, assieme ad altre connotazioni, potrebbe evoca anche il sangue di cui tali figure sono però prive. Il corpo pieno, troppo pieno, è così in realtà vuoto, troppo vuoto: il realismo eccedente, eccede sopra tutto nella negazione di se stesso. Il pieno indica il vuoto facendosi vuoto. Si ha cioè un salto in avanti e poi subito indietro, dal pieno al vuoto, dal vuoto al pieno, come in quel test psicologico dei due vasi identici posti di fronte l’uno all’altro, in cui non sai se non vedi piuttosto due profili di volti umani…Anche qui, la metamorfosi e il moto perpetuo, il salto ontologico, a dare un’anima intensa ad una nuova e affatto personale mitologia.

 

                A completare l’inquietudine della metamorfosi nell’opera di Maria Micozzi, viene un ulteriore salto: quello dal quadro verso il sue esterno, il non-quadro. Un salto, anche questo, duplice: uscendo da sé, infatti, il quadro “afferra” l’oggetto esterno, prende e porta al suo interno la cornice, la quale, del resto, si complica a piacere: diventa un qualche misterioso, “mostruoso”, supporto, che arieggia il cavalletto, o diventa un tavolo, una sedia, e, sembra, si guarda attorno per vedere cosa ancora inglobare in sé, in un’aspirazione non più verticale ma orizzontale di trasformarsi, trasfondersi altrove. La metamorfosi ancora.

                C’è, nell’Alte Pinakothek di Monaco, il quadro di un fiammingo che mostra Danae nell’atto di ricevere Giove come pioggia d’oro; si ha un’impressione analoga a guardare i lavori di Maria Micozzi intenta a fermare coll’immagine il perpetuo moto del divino.

–Franco De Faveri -2001

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